L`IDENTITÀ FRAMMENTATA.
GALERÍA Ingresso Pericoloso. Roma
MEMORIA DE UN OLVIDO
Massimo Rosa.
Galleria Ingreso Pericoloso, Roma.
“Se puoi vedere, guarda. Se puoi guardare, osserva”.
Con questa citazione dal Libro dei Consigli si apre il romanzo Cecità del premio Nobel per la letteratura José Saramago (1922 – 2010). In una città anonima di un paese anonimo, la popolazione viene colpita da una epidemia. I personaggi, rigorosamente anonimi anch’essi, perdono uno dopo l’altro la vista divenendo ciechi. I loro occhi è come fossero velati da un mare di latte bianco. Per evitare la diffusione di questo “mal bianco” i ciechi vengono rinchiusi in apposite strutture dove comincerà un’aspra lotta per la sopravvivenza fatta di soprusi e violenza. Una sola donna viene risparmiata dalla cecità. A lei toccherà il duro compito di essere guida degli altri ma anche testimone del degrado etico e morale di cui è capace l’essere umano quando l’istinto di sopravvivenza prende il sopravvento su ogni altra componente.
Cecità è la principale fonte di ispirazione per il progetto “L’identità frammentata” dell’artista spagnolo Pablo Rubio (Cordoba, 1974) dal quale sembra avere colto una grandissima lezione: la collettività debole minaccia la determinazione del singolo individuo come la debolezza del singolo individuo minaccia la determinazione della collettività. Lucida e lineare è la denuncia di Pablo Rubio sui malesseri della nostra contemporaneità espressi in tre interventi installativi di grande forza narrativa e leggerezza estetica. Poesia allo stato puro. Nella prima stanza siamo circondati da una ottantina di “Autoritratti in presente”. Sempre la stessa immagine, la sua, tagliata, frammentata e poi riassemblata. Tutti i ritratti hanno gli occhi velati da oggetti che hanno caratterizzato l’ultimo anno di vita dell’artista. L’indifferenza rende ciechi, sgretola la collettività, la coesione sociale e spinge l’essere umano ad un atteggiamento egoistico e menefreghista. Passando alla seconda stanza ci troviamo di fronte ad una biblioteca. Una raccolta di cartelle anticate artificialmente racchiudono sigillati ed inaccessibili i suoi pensieri privati; scritti, bozze, poesie e disegni che vengono così gelosamente protetti e conservati. Mescolata vi troviamo la memoria pubblica. Riviste care all’artista, disegni di bambini a cui insegna, comunicati stampa di mostre passate e poesie a cui è particularmente legato. Ma tutto è in bilico, sta per sciogliersi e cadere. La mancata protezione della nostra cultura e della nostra memoria è un altro pericolo che grava quotidianamente sulla collettività e ne minaccia l’estinzione.
Nella sala più intima, la terza, corde nere appese in alto sui quattro lati tendono verso il centro, si annodano e poi scendono compatte al suolo senza toccarlo. A prima vista sembra un buco nero. Una galassia che vorticosamente comincia a girare su se stessa implodendo in un unico punto dal quale ci aspettiamo da un momento all’altro una spettacolare esplosione generatrice di luce ed energia. Un dettaglio in un angolino ci fa cambiare idea. Alcune forbici sono state legate tra loro con le stesse corde nere che hanno appena reciso interrompendo così le terminazioni nervose di una spina dorsale privandole della loro naturale e fondamentale funzione: il ricordo. Senza la memoria diveniamo personaggi anonimi e non vedenti. Non abbiamo più passato, non possiamo vivere il presente e non possiamo neanche agire per la costruzione di un futuro con solide radici.
Gonzalo leandro
Director Galería WAY OF ARTS. Cascais -PORTUGAL
O trabalho de Pablo Rubio apresenta-se como uma proposta de reflexão e diálogo entre o espectador e o lugar, como ponto de partida que nasce da profundidade da mente e da memória. Na obra de arte, a sua intimidade procura aprofundar-se num espaço sagrado, individual e colectivo, num espaço arquitectónico denominado por um “sem lugar”, simbólico e mental, aprofundado e alimentado pelos olhares que o habitam, que o ocupam e empurram, como uma memória perdida, infantil e recuperada. Uma memoria habitada. Pablo procura suscitar questões incertas sobre o tempo, sobre um tempo, relativo a um pensamento que parte, nasce, arranca do ser para regressar novamente, vezes sem conta, de forma ascendente. Faz referência a um lugar para o qual fomos escolhidos, no qual se procura sentir o interior, observar intimamente o caminho da união, albergado e protegido para a ausência, a dor, a ilusão, infância volátil e recuperada, questionando instantes e segredos, memórias e arquitecturas entrelaçadas.
O artista busca uma descoberta pessoal, um convite ao sonho, um habitáculo onde encaixam as realidades mais intensas e uma comunicação automática, questionando os estados da identidade humana, e fomentando a participação do espectador. Assim, as cordas térreas e negras transformam-se nas nossas bases vitais. Livros velhos, sujos e rasgados. Papéis grisalhos e oxidados que absorvem todo o nosso ser para mais tarde elevá-lo a um presente caducado. Uma memória futura, anexada a um sonho vencido, esquecido. Uma desconstrução do ser por vezes individual, outras vezes colectiva. Uma multiplicação histórica e busca mitológica, mística, ao fluxo da vida. Auto-retratos mutilados, cegos e fragmentados. Fala de refúgios, afirmação e aceitação, pureza e renovação. De uma linguagem entre a intimidade e o espaço, num voo nocturno silencioso e ensurdecedor. Recordações enevoadas e líquidas como um testemunho despido de silêncio, uma viagem que termina no seu destino, vestígios antigos, oxidados e luminosos, que se dissipam continuamente entre as nossas pegadas… hipnóticas, recordações como papéis fragmentados. Memórias desaparecidas.
E encontradas.
Intervista a Pablo Rubio
a cura di Angel Moya Garcia
Angel Moya Garcia: Nel romanzo di Jose Saramago, “Cecità”, una strana epidemia contagia tutta la popolazione, un’anomala forma di cecità in cui lo sguardo rimane intrappolato in un mare di latte. Solo uno dei personaggi rimarrà con la responsabilità di vedere, “di avere gli occhi quando gli altri li hanno perduti”. Che vincolo esiste tra la narrazione, lo sviluppo, i conflitti, le paure e le responsabilità narrate in questo libro e la serie degli autoritratti che hai presentato nella Galleria Ingresso Pericoloso?
Pablo Rubio: La paura dell’essere umano di non riconoscersi come tale, di perdere il valore della sua condizione a causa di un’amnesia volontaria o inconscia mi sembra raccapricciante. Quando un individuo viene spogliato della sua coscienza, della sua etica o morale, del suo modo di essere, del suo atteggiamento verso la vita, in una sola parola, della sua conoscenza oppure quando è costretto a vivere nel passato per via di una malattia o a causa di una rottura con la realtà, in ultima analisi gli viene strappato il suo ricordo. A questo punto egli non potrà più immagazzinare, conservare esperienze passate, recuperare informazioni, evocare, essere. E finisce per distruggersi tornando all’ieri più profondo che è ciò che accade nello sviluppo del romanzo con alcuni dei suoi personaggi. Ricordo una notte, da piccolo, mentre tornavo da una passeggiata con mia nonna. Mentre lei saliva le scale che portavano a casa sua, all’improvviso rimase in stato di shock, e non fu più in grado di salire gli scalini che mancavano. Lei mi guardava come se stesse per chiedere: “perché non posso collocare il piede sullo scalino seguente per continuare a salire?”. La risposta era evidente: l’oblio. Sono certo che non era a me che chiedeva una risposta. In quel preciso istante lei non sapeva più chi fossi io. Ed in quel momento nemmeno io seppi più chi ero. La sua vita, la sua identità si era frammentata.
Sempre mi è rimasto impresso quello sguardo; l’evocazione di quegli occhi azzurri di mia nonna ancorata sulle scale mi provoca tutt’oggi una scossa interiore, poiché il mare di latte si era installato nella sua vita. Da quel preciso momento lei non possedeva più un nome, come i personaggi del romanzo. Adesso, dalla mia posizione attuale, osservo come capitò la scomparsa della sua memoria. Sostanzialmente, nella serie “Autoritratti in presente” parlo di memoria di una scomparsa.
A.M.G.: Nel Panopticon, modello di carcere ideato e progettato da Jeremy Bentham, un unico guardiano poteva osservare tutti i prigionieri in ogni momento,”Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile” come affermava Foucault. In opposizione, nell’Anopticon il sorvegliante era l’unico a poter essere visto senza aver alcun modo di vedere i sorvegliati. Nella prima stanza della galleria, in cui tutte le pareti sono riempite dai tuoi autoritratti, lo spettatore si sente osservato continuamente, però paradossalmente i volti non lo guardano mai frontalmente. Quali sensazioni, esperienze o riflessioni vorresti provocare nel visitatore che è catapultato al centro della struttura?
P.R.: Innanzitutto, devo dire che intendo e concepisco la pratica artistica come un’alterazione dello spazio. Sempre ho avuto bisogno di creare un luogo in cui guardarmi, dall’interno e dall’esterno, tangenzialmente, per cercare di condividerlo con una visione molteplice, e realizzare in questo territorio un’erosione delle nostre vite, di ricordi e oblii. Per questo necessito della presenza dello spettatore, perché richiedo che osservi, che tocchi, che si inondi, che possegga il luogo, e allo stesso tempo ne sia posseduto, sia “visto” dall’opera. Per me è essenziale che il componente sensoriale, la partecipazione fisica e la coscienza siano parte dell’opera rappresentata. In questo caso si tratta di una serie di installazioni il cui filo conduttore è la perdita della memoria e l’ulteriore ritrovamento del ricordo attraverso un’identità frammentata, uno spazio dove esiste un non-luogo. Questo non-luogo io provo a cercarlo, nella prima stanza della galleria, con l’uso di maschere che coprono gli occhi (percezione esteriore) dei ritratti, con la sua molteplicità e miscelazione, e sempre con oggetti che formano, o che hanno formato, parte della mia memoria locativa (tutte le maschere sono state fatte con ricordi fisici) al fine di poter cancellare parte della mia memoria cronologica.
In “Cecità” soltanto una donna poteva vedere, soltanto lei era consapevole, in un modo visuale e ovviamente spirituale, di ciò che accadeva all’esterno. Nella stanza della galleria lo spettatore è l’unico a non indossare una maschera. Ha la capacità di osservare tranquillamente. Non ha il viso velato e decontestualizzato. È il solo che domanda, guarda e contempla. In questo modo mi avvicino al Panopticon, giacché è fondamentale per il dialogo nell’installazione il complesso gioco di sguardi, occultamenti e apparizioni di occhi. Tuttavia quest’avvicinamento non è dovuto all’utilizzo del controllo del potere, dell’onniscienza o della vigilanza, bensì dalla frammentazione.
In realtà, lo spettatore non potrà evitare di lasciare la cosa più importante mentre esce dalla galleria: una parte del suo essere rimarrà lì. Una piccola parte che sì è stata continuamente vigilata e contemplata: l’oblio. Il proprio oblio.
A.M.G: Un’infinità di maschere che nascondendo l’identità, la frammentano e la deformano, costruendo paradossalmente uno specchio che riflette solo la propria immagine. Sguardi rotti che urlano, volti solo apparentemente identici che si sovrastano nella loro finzione e stati d’animo e atteggiamenti che s’interpellano reciprocamente. Come pensi che la decostruzione dell’identità possa aver determinato la condizione del soggetto contemporaneo e come pensi sia possibile ricostruirla?
P.R.: Tutte le immagini che formano parte dell’opera della prima stanza sono fotografie del mio viso (sempre la stessa –in presente-) alle quali ho aggiunto una maschera o un cappuccio, le ho rese opache o traslucide; ciascuna, individualizzandole. Però con la peculiarità che questi montaggi sono stati realizzati con oggetti e cose che appartengono al mio passato, alla mia vita quotidiana di ieri: bende per ferite, maglie metalliche di finestre di officine in cui ho lavorato, scritti, disegni, testi vecchi, propri e di altri, che trovavo durante passeggiate e percorsi. Vale a dire, formano la totalità del mio codice e atteggiamento di vita. Queste centinaia di oggetti raccolti, immagazzinati e custoditi gelosamente, mi servono per costruire un’identità attuale contemporanea, poiché io sono adesso e il mio tempo. Però, contemporaneamente, proprio grazie a quella moltiplicazione eccessiva della stessa immagine, una volta e un’altra ancora, ho notato una perdita di visione, una decontestualizzazione del mio essere in quell’istante, in quel preciso istante. È la messa a fuoco unitaria di diversi luoghi, diversi stati, diversi momenti, sensazioni e variazioni. Variazioni dell’oblio, di un’identità frammentata, però in un solo attimo, in un presente fugace. Tutte queste esperienze colte in un istante (attraverso il ricordo delle maschere) mi portano al ruolo che svolgo come individuo nella società, per cercare di capire una realtà che non è unica, bensì stratificata, una realtà gerarchica e basata sugli usi del potere. In questo modo, ho bisogno che lo spettatore possa contemplare quella realtà da un’altra posizione, in altre parole, interna. La sua visione è accompagnata dalla mia visione (multipla, composta, rotta e frammentata), o meglio ancora, si libera di se stesso, si situa in un altro luogo, in un’altra realtà, in un altro passato. Mi segue in un viaggio verso quel non-luogo, verso una assenza.
A.M.G: Nella seconda sala invece, in un’installazione realizzata con libri, testi e parole appartenenti al tuo vissuto personale, le teorie e i paradigmi che ci hanno preceduto iniziano a indebolirsi e a sciogliersi. Le pagine che trattengono i ricordi e che conformano la memoria collettiva, si svincolano dal corpo della storia, precipitando irrimediabilmente verso il pavimento. Quali pensi siano le logiche, i condizionamenti o i rapporti tra memoria individuale e memoria collettiva?
P.R.: Nel mio pensiero è sempre più presente l’idea di “architettare” spazi. Accumulare risposte per far avanzare l’opera oltre il proprio oggetto che è la forma. Nella seconda stanza della galleria ho cercato di costruire un’esperienza, un luogo dentro un altro luogo, uno spazio dentro un altro spazio. Partendo dal crollo di codici, comportamenti e passati vitali e sensoriali degli esseri che deambulano per cecità, ho raccolto una quantità ingente di documenti in forma di scritti, disegni, pagine sparse e perdute, fotografie e testi che appena si lasciano vedere, perché la biblioteca (come pietra angolare del luogo in cui si conserva la memoria) è collassata. Niente si può contemplare, comprendere testualmente, il pavimento è pieno di cumuli di parole. È un’ermeneutica in continuo tentativo di decifrazione. Ed è evidente come qui siano necessarie più che mai l’esperienza e la visione dello spettatore. Qui la memoria e la percezione non sono passive, non giocano un ruolo meramente di osservatore, bensì adesso formano parte dell’opera, che non è altro che lo spazio. Davanti al caos si può scegliere tra due possibilità: tentare di costruire la biblioteca mentalmente oppure farlo fisicamente. Ma… vale davvero la pena? I libri sono incollati, chiusi e racchiusi, gli uni con gli altri, arrugginiti, rotti e frammentati. Potremmo rispondere affermativamente, giacché sono i nostri ricordi, che operano per l’oggi, per il presente, che sono in fondo quelli che ci hanno formato e dato modo di svilupparci con successo nella società, e sopra ogni cosa il linguaggio come nesso. L’ospite della mostra apporterà la propria memoria individuale, la propria esistenza e il proprio passato, il suo luogo e il suo presente passano ad essere, a formar parte del palcoscenico. Lo spazio, inteso in questo caso come memoria collettiva, diventa una sorta di epicentro, di limite, come un teatro in cui tutti facciamo parte dell’elenco degli attori. Esso ci inonda, ci assorbe. Ma l’individuo non ne diviene solo parte, non c’è un primato ontologico, diventa egli stesso spazio.
A.M.G: In questa linea, la terza sala è occupata da un’installazione di corde nere aggrovigliate che, scendendo dal soffitto, si aggirano sopra i visitatori come una grotta piena di stalattiti che gocciolano pensieri di un passato mai concluso definitivamente. Le corde non toccano mai terra, rimangono sospese, le proprie radici sono state tagliate. Nella costituzione dell’identità, come possono convivere il vissuto personale insieme alle esperienze presenti? pensi ci sia la necessità di dimenticare consapevolmente tutto il finora?
P.R.: Non credo ci sia bisogno dell’oblio volontario, ma sì di un ripensamento degli atteggiamenti, chiamalo valori o comportamenti o meglio ancora giudizi. La stanza mostra una sorta di albero le cui radici sono sospese, oppure un cervello con la spina dorsale recisa, oppure una grotta piena di stalattiti nere e terrose. È indifferente. La cosa realmente importante per me sono i nervi, le ramificazioni che inondano il soffitto fino a un centro comune. Qui, e seguendo il pensiero foucaultiano, ho tentato di riflettere sulle realtà, conoscenze, stati che ci circondano, in altre parole, esperienze o eventi. Metaforicamente, le mille esperienze (radici) che si verificano nel nostro presente (centro della stanza) ci portano a un passato completamente amputato, per questo la spina non tocca il pavimento, non forma parte del terreno come depositaria del nostro corpo, mente, identità e spirito. La storia non persegue un fine, non è continua, non ha senso. Respiriamo in un terreno (società) la cui memoria collettiva è fittizia, relativa, limitata. Sembra che siamo condannati a ripetere gli errori già imparati, già installati nel nostro interno e che, apparentemente rettificati, pulsano ogni volta con più forza, come succede in questo momento in ciò che ci circonda. Però l’oblio volontario sempre raggiunge chi lo rinnega. E lì è dove si mostra la fragilità della nostra esistenza, la sottile radice dalla quale dipende il nostro futuro. L’opera presenta un taglio di tutta l’installazione in prossimità del pavimento. Il suo peso, tanto fisico quanto visuale, ci porta a immaginare che dovrebbe continuare, che dovrebbe seguire la sua strada, che non è altra che introdursi nel terreno. Però ho tagliato i legami con l’infanzia, ho rotto i diari e gli appunti dell’adolescenza, ho fermato il tempo, che non è altro che un catalogo del passato. Il tema del tempo passato, la fragilità della memoria come un’identità frammentata mi affascina e mi ossessiona. Ed è fondamentale nella mia prospettiva e visione personale, nella mia esperienza vitale. Ho sempre cercato di lavorare dall’esperienza, non dal riferimento. E questo dovrebbe essere lo stimolo. Nonostante si frammenti.