IL CIMITERO DELLA MEMORIA
A cura di ángel Moya García con Cecilia Bertoni.
INTERVISTA
*Per la mostra “Il Cimitero della Memoria” hai edificato una libreria di frammenti dimenticati in cui la parola scritta si amalgama, si fonde fino a perdersi bruciata sotto laterra. Che tipologia di documenti contiene quella libreria?
L’anima centrale di Anatomia de un Olvido (Anatomia di un Oblio) è composta dalla fusione di immagini e scritti che hanno caratterizzato e sono radicati negli ultimi anni della mia vita. Il testo e le parole, il loro silenzio inteso come materia, vengono ingabbiati e rinchiusi nella propria dimensione. Libri, decine di libri noti e sconosciuti, altri frammentati oppure illeggibili. Frammenti di capitoli di testi mutilati, dilaniati ma predisposti all’unione. E poi periodici, grafiche, bozzetti di opere realizzate in precedenza, schizzi, vecchie fotografie ed altri elementi recuperati come ritratti, fotocopie o semplici note di pensieri trascritti. Il tutto è appunto unito nella propria frammentazione ed è mescolato, amalgamato e affogato in ceneri ottenute da 100 fogli di carta scritti da persone che mi sono state intorno, anche da sconosciuti. Possono essere fogli trovati per caso o arrivati a me in qualsiasi modo. Inceneriti. Una libreria dentro altre librerie conficcata nel terreno e rivestita di cristallo. L’idea poi di adombrare ed impregnare la biblioteca di oscurità è radicata nel desiderio di tuffarsi in una civiltà perduta e dimenticata; in uno spazio dove il linguaggio ha dimorato, a noi che come essere umani ancora agogniamo i lampi ed i luminosi confini di una futura ricerca archeologica del ricordo.
Ho sempre pensato alla complessità della memoria e a come essa a volte scompare come fosse una serratura non completamente bloccata; come un rastrello o impronte o segni, un oblio troppo pesante, una biblioteca in bilico e troppo offuscata. Ho bisogno delle parole intese come aperture di significato, come elementi alla ricerca di una propria autonomia di cuore, a volte anonime e interiori, ma sempre affascinanti e portatrici di immagini per chi le contempla o ne è semplicemente incuriosito poiché sono rappresentazioni umane. Documenti e testi come presenze dei pensieri assenti, costantemente nomadi in quanto riconvertiti in frammenti di scrittura sulla quale hanno posato lo sguardo infiniti occhi e tuttora vissuti in qualche modo dagli uomini.
*Possiamo parlare, quindi, di un tentativo di preservare la memoria, ma tuttavia se non ci fosse oblio, nessun cambiamento sarebbe mai possibile, perché il peso del passato ci schiaccerebbe e determinerebbe incondizionatamente ogni scelta, come affronti questa dialettica nei tuoi lavori?
In verità, l’idea che mi appassiona di più nel mio lavoro, più che un riscontro diretto della memoria, è indagare come si costruiscono e si inventano i nuovi ricordi nati per preservare la memoria stessa, sia individuale che collettiva. Mi interessa sapere in che modo si possono attraversare nuove porte della memoria, come fa a prendere una nuova vita e formare un nuovo ricordo, con una nuova consistenza, fino a generare un nuovo essere, un essere in divenire, con un messaggio non ancora conosciuto, con delle nuove radici, a volte con reminiscenze della forma primitiva e altre volte completamente estraneo a ciò che è stato e alle sue esperienze passate. E’ evidente che esiste un punto fondamentale nella materia che approccio: l’immaginazione di una esistenza senza ricordi, senza conoscenza dello spazio e del tempo; niente di niente viene avvertito. L’oblio acceca e ogni minuto della nostra vita dobbiamo nuovamente imparare chi siamo, dove siamo e chi ci sta intorno. Questo momento di reinvenzione, questa ricerca interiore, mi appassiona e mi seduce. E’ la creazione di una nuova opera come risposta ad una preghiera. Questo progetto si è costruito a partire dai colloqui, dalla ricerca delle informazioni, la nuova memorizzazione di tutto ciò che che è relativo a chi e cosa siamo stati, per poi passare alla rievocazione del passato e del presente come viaggio di andata e ritorno. Simulacri di ritratti. A volte veritieri. Mi appassiona indagare la frammentazione di quello che vogliamo, che aneliamo, che desideriamo e che intuisco rimanere conservato nella mente e negli occhi durante un colloquio. E’ certo però che il peso del passato ci avvilisce, ci affoga e ci trasforma in una crisalide nera. Ma non più della generazione di nuove ombre. Non meno del cimentarsi con spazi disabitati, con nuovi antri e stanze circolari in cui si sviluppano nuove vite, come fossero irradiazioni emanate dal centro che avvertiamo diminuire allontanandocene. Tutto in queste stanze è ricoperto di inchiostri ossidanti. E dobbiamo anche assicurarci di serrare le vie di accesso dal momento che l’oblio cosciente raggiunge sempre chi fugge da lui. Ed è proprio qui che si svela la fragilità della nostra esistenza; e qui che appare la delicata radice da cui dipende il nostro futuro di cui non sappiamo nulla, di quello che ci attende ma che è già avariato e nudo.
*In questa libreria si osservano due tipologie di elementi, un corpo organico e uniformato e un insieme di carte sparpagliate intorno. A che si deve questa differenza e qual è il rapporto tra le due parti?
Tutti i documenti, le carte e gli scritti che notiamo intorno al corpo centrale coesistono e sono pertinenti al lasso di tempo che intercorre nel viaggio che intraprendo dalla mia città fino al luogo dove l’opera è stata collocata. Durante questo cammino di vita, che dura diversi giorni, faccio incetta di lettere, pagine di libri, manoscritti, pensieri di persone che mi circondano; faccio mie le loro parole, i loro messaggi e i loro sorrisi. Una volta riunite tutte queste carte, le mescolo, le osservo di nuovo e le ricombino conferendogli una propia autonomia di pensiero osservandole quotidianamente; quelle che si frammentano le colloco intorno al nucleo centrale. La principale caratteristica che possiedono è che sono state violentate per garantirne la conservazione, ma giorno dopo giorno, col cambiare della luce e la collocazione ambientale, deteriorandosi e ossidandosi, si decompongono lentamente andando verso il futuro e paradossalmente la biblioteca stessa si decompone, seppur in modo meno repentino, languidamente e con più pause. La vera intenzione è quella di riflettere su come le idee dialoghino, su come i linguaggi passati e futuri interagiscano in tempi differenti; la realizzazione di un sentiero mitico e antico nel quale ci si incamminerà prima o poi ma conferendo pari importanza alle direzioni di partenza e arrivo. La parole ed il suo ricordo. Una meta piena di aria e ossido dove i tempi inesorabilmente coincideranno.
*In altri tuoi interventi le pagine che trattengono i ricordi e conformano la memoria collettiva si svincolano dal corpo della storia. Diventando leggere, precipitano irrimediabilmente verso il pavimento, rifiutando le teorie di Maurice Halbwachs e istigando a dimenticare consapevolmente tutto il inora. Come mai in questo caso hai deciso di racchiuderli all’interno di scatole?
La decisione di rinchiudere l’ opera in una grande teca di vetro è dovuta al rapporto con lo spazio. Cioè, lavoro sempre in relazione al luogo dove questa respirerà, dove dimorerà la sua idee creativa; un suolo abitato di memoria. Questo è fondamentale, inevitabile e per me una vera ossessione. Sebbene in laboratorio realizzo decine di studi e bozzetti, non esiterò mai di trasformarlo e indirizzarlo alla sua condizione finale di esistere fino a che non lo avrò integrato perfettamente con lo spazio che lo accoglierà e creare così un luogo simbiotico per l’opera dato dalla costante dialettica tra contenitori. In questo caso era molto importante isolare l’opera dall’esterno a causa della sua collocazione nella natura e al tempo stesso portare il fruitore ad una immersione organica, percettiva e carnale perché più di tutto, quello che accade qui, è che lo spazio gioca come un grande teatro scenografico naturale ed era mio desiderio integrarlo completamente. L’illuminazione ed il tempo poi offrono possibilità di metamorfosi a tutta la struttura sia nella forma che nel suo significato simbolico. Il vetro mi ha offerto la possibilità di creare un’ urna, un luogo di riposo della vista, una parvenza effimera di eterno ma anche lasciava passar la luce, vedere il paesaggio tra le sue fessure e perché no anche il proprio riflesso; puoi osservare le pagine incollate e mischiate ma anche i tuoi stessi occhi, la tua propria visione e interrogazione, il tuo desiderio e silenzio; noi la guardiamo e lei ci guarda e avvenendo questo l’opera smette di appartenermi e diventa uno spazio di fusione collettiva. La teca come una grande feretro, una biblioteca ricucita, nera, bruciata completamente e decontestualizzata dal suo collocamento appropriato, luogo dove lo spettatore riconosca la propria storia oppure inventi sul posto di sana pianta storie nuove, traslando le parole e aggiungendone sempre di più. Deve essere un territorio per la contemplazione, dove attendere un segnale. Arriverà un giorno in cui tutta la struttura si sgretolerà e inevitabilmente sotto l’azione del peso e del tempo tutto si incrinerà e cadrà. E in quel momento torneremo al principio, tutto si libererà, cadrà, fluirà e si fonderà con la terra, con l’oscurità e l’assenza. E tutto sarà terra.
*Che ruolo gioca il linguaggio nei tuoi interventi e perché lo spettatore è quasi sempreimpedito a decodificare o a leggere ciò che c’è scritto?
Il linguaggio si è trasformato nel fulcro della costruzione del mio lavoro e della mia ricerca artistica. Attraverso di lui e le sue molteplici forme, la sua eco e la sua profondadimensione, continuo a cercare le incidenze delle identità, le connessioni tra un presente esistente e un presente scomparso e le costruzioni di nuove esistenze immaginate. E’ di vitale importanza per il mio modo di essere creare opere e oggetti come fossero domande, o questioni o preghiere che galleggiano nel silenzio. Per i miei ultimi progetti ho lavorato con soggetti affetti da Alzheimer. L’obiettivo centrale di questo studio è stato quello di affrontare il grave problema che questo insieme di persone soffre prima per il deficit di comunicazione verbale e non verbale, così come la loro difficile interazione sociale e le proprie ossessioni ripetitive ed infine la propria frammentazione e la forzata separazione dal mondo in cui ruotavano e da cui erano circondati. Per questo mi son servito del linguaggio, della comunione dei linguaggi ma sempre frammentati; ossia con l’utilizzo di frasi sciolte, spezzoni di canzoni, di letture importanti unite a disegni per poter attrarre queste vite lontane dall’oggi e riportarle al proprio ieri in modo cosciente. Tutti noi siamo segmenti. E’ una preoccupazione e ossessione vitale che mi accompagna. Mi interessa vivamente non mostrare apertamente il messaggio ma ho bisogno che lo spettatore crei da sé la propria esperienza aggiungendo la propria memoria affinché dialoghi con le mie idee. Nell’opera per Il Cimitero le carte non mostrano nulla, solo parole in libertà, alcune immagini appena visibili e testi sporchi ed illeggibili. Ho bisogno per lo sviluppo della mia opera dell’unione di diverse identità, che in questo preciso caso si devono riconoscere con oggetti familiari come libri e documenti attraverso la costruzione, il pluralismo, lo sdoppiamento e l’attrazione così come attraverso la loro dissoluzione, rottura e frammentazione, essendo il linguaggio, la parola ed i limiti della comunicazione il proprio legame e alleanza e la perpetua e perenne costruzione dei ricordi. Anche se frammentati e mutilati e non ci appartengono più.