Escritos ESTADOS INDEFINIDOS PARA UNA EXISTENCIA

ESTADOS INDEFINIDOS PARA UNA EXISTENCIA. ITALIANO / ESPAÑOL

A cura di Antonio Arévalo.

Entrevista

Tutti i paesaggi sono convergenti e divergenti nel deserto di Atacama. Raúl Zurita

P. R. Questo verso, caro amico, portato per te duplicemente, offre un significato massimo a Estados Indefinidos para una Existencia per due ragioni. La prima mi giunse quando entrai per la prima volta in quello spazio nudo e già oramai al termine, quando seppi nel mio corpo che tutte le linee si univano in un punto, essendo comunque cosciente di trovarmi e respirare in uno spazio sotterraneo. Un viaggio, un’attesa, la lingua, la terra, sì, la terra, perché la sala espositiva della Tenuta Dello Scompiglio è stata creata perforando la terra, perché mentre ci guardavano, mi sentii osservato, trasformato in guerriero di fango; perché quello che lì esiste è aria, il peso assente della terra; la terra, perché esiste la gravità come luogo dove si annidano e si trasmettono le idee. Perché c’è una linea sopra la quale si sentono voci. Troppe voci. La seconda ragione me la offristi come un regalo, inviandomi una serie di poesie e riflessioni di questo artista che non conoscevo ma che senza dubbio aveva creato un meridiano in più a connettere la mia opera, le nostre vite e tre paesi. Perché tutto in Estados Indefinidos è pendolare. Tutto è oscillante. E nelle nostre due settimane di convivenza, corri a Torino ad abbracciarlo e a presentare una serie di scrittori cileni alla Fiera del Libro.

A. A. Inevitabile non riuscire a conciliare diverse circostanze che uniscono il fatto di essere confluiti nel medesimo luogo, inevitabile per te non pensare a chi è andato lasciando la sua traccia in questo e quel luogo, inevitabile allora non ricorrere alla poesia, viandante, non c’è un cammino, inevitabile per me non pensare al momento in cui me ne vado via dal Cile, guardandomi attorno sapendo che non si poteva più tornare indietro, quasi come a voler trattenere l’imagine di tutto ciò che mi circondava. Salendo e scendendo le scale, osservando tutte le stanze, mi rimasero impregnati ogni angolo, ogni porta, tutte le finestre, gli squarci di luce che entravano e uscivano, le vecchie lampade appese ai soffitti, le infinite ragnatele, i vetri rotti degli ampi finestroni, i rubinetti arrugginiti dall’umidità, i mobili antichi e polverosi… nel tempo ho cercato di tradurre quegli anni, quell’odore, il passaggio di tanta gente, quanti amori, quanti gli addii, quante le morti, quante le vite, quanti gli sguardi che si sono incontrati, che sono fuggiti, sguardi che videro e non videro, quante le parole, quanti pensieri e quante cose dette, quante zittite, quante gridate, quante parole sottintese, quante piante secche, quanti fiori in decomposizione. Le gocce solitarie che cadono nel lavello e che continueranno a cadere per molto tempo. E intanto la città sembrava un enorme parco giochi, ed i grandi palazzi le pedine di un grandissimo scacchiere. Sembrava come se non fosse mai accaduto niente, tutto trascorreva, le giornate, le ore…avevamo girovagato ognuno per conto proprio. Poi arrivava il coprifuoco (la gente di questa città si vede ma non si guarda). Si era agli inizi della primavera e mi obbligavano ad abbandonare la casa che era cresciuta con me, che si era disfatta, con me. Perché molte volte succede che i luoghi divengono ostili, i vecchi muri insostenibili e pesanti, le finestre si fanno troppo piccole…dietro le porte chiuse, le stesse che mi ritrovo incontrandoti. È come se parlassimo una stessa lingua, e sebbene sia così, qui mi riferivo ad una stessa lingua visuale. Però come scrive Pablo Neruda nelle sue memorie “Molti dei miei ricordi sono svaniti all’evocarli, sono diventati polvere come un cristallo irrimediabilmente ferito”.

Da dove inizi a parlare di questo vuoto esistenziale?

P. R. Due circostanze tragiche, quali furono la scomparsa di mia nonna materna e di mio padre, ai quali ero molto legato, e la lettura allora di alcuni libri segnarono profondamente un risveglio nella mia visione della vita. Entrambi patirono lunghe malattie, e nel prendermene cura, Cecità e Cent’anni di Solitudine evolvevano nella mia vita mentre loro si spegnevano. Il primo mi portò ad una mostra (L’identità frammentata); il secondo mi ha portato a te e a Estados Inefinidos para una Existencia. Intesi quei vuoti come un esorcismo salutare e necessario, come una potatura agli alberi di un giardino per la loro forza e crescita successiva, come transito e radici per proiettare nuove vite. Sapevo già che il tempo e la memoria ed i suoi luoghi confluiscono in uno stesso tempo, dove c’è un asse sopra il quale ruotano e si ritorcono, un centro dove tutto coincide e si concentra. Le parole annodate e l’aria. Le parole e l’aria. Sì. Ero già cosciente che avrei sempre calcato le strade di nuovo.

P. R. Due circostanze tragiche, quali furono la scomparsa di mia nonna materna e di mio padre, ai quali ero molto legato, e la lettura allora di alcuni libri segnarono profondamente un risveglio nella mia visione della vita. Entrambi patirono lunghe malattie, e nel prendermene cura, Cecità e Cent’anni di Solitudine evolvevano nella mia vita mentre loro si spegnevano. Il primo mi portò ad una mostra (L’identità frammentata); il secondo mi ha portato a te e a Estados Inefinidos para una Existencia. Intesi quei vuoti come un esorcismo salutare e necessario, come una potatura agli alberi di un giardino per la loro forza e crescita successiva, come transito e radici per proiettare nuove vite. Sapevo già che il tempo e la memoria ed i suoi luoghi confluiscono in uno stesso tempo, dove c’è un asse sopra il quale ruotano e si ritorcono, un centro dove tutto coincide e si concentra. Le parole annodate e l’aria. Le parole e l’aria. Sì. Ero già cosciente che avrei sempre calcato le strade di nuovo.

Perché il profondo è l’aria, diceva, esiliato, Guillén. Perché l’umidità è perenne. Stando dentro lo Spazio Espositivo, lo spazio sotterraneo, alle sue viscere, l’aria pesava come nelle stanze oscure e umide della casa de los Cidros, nel cuore ancestrale di Córdoba. Ho voluto intavolare un dialogo con la vita della casa che ospita il mio atelier e dove abito per la maggior parte della mia esistenza. È una casa antica, povera, dove hanno sempre vissuto esseri umili, molto fredda e molto vecchia, di tipo arabo e con più di duecento anni, una casa enorme e quadrata, con otto piccoli alloggi intorno ad un patio centrale. Agli inizi del ‘900 esisteva un collegio per bambini molto poveri in quel patio, senza tetto, solo con toldos (coperto di tela). Qui ho già visto morire tre persone, ma sono a conoscenza (che raccolgo in dei diari) della storia e degli accadimenti di più di venti famiglie che abitarono e respirarono qui. Adesso ci sono solo io in questo immenso quadrilatero di calce, non c’è più nessuno, ho affittato tutte le stanze, nelle quali lavoro. È così che attraverso gli oggetti, il vuoto interno e pesante del profondo, aspiro ad unire e a cucire sguardi, ad introdurre vivenze immaginate, a richiamare i suoi antichi abitanti, a creare nuove identità che la abitino con me, in uno spazio sotterraneo. È il numero 18. È il numero 18 de los Cidros. PERCHÉ LE SERRATURE SONO APERTE. Sento la Sala Espositiva come un sarcofago bianco, legato ma allo stesso tempo circolare, orizzontale ma pendolare. Perché il pensiero si muove. Ed è lì dove l’esposto si libera, dove i materiali si denudano, dove le immagini si convertono in nuovi spazi e nel loro contrario, perché edifichiamo nuove creazioni e finzioni, altri mondi; nuovi pensieri, dove i ricordi e le memorie di disabitano per trasformarsi in nuove finzioni, dove gli specchi si costruiscono nuovi autoritratti. Con parole tue, una rosa è una rosa è una rosa…Antonio, tu mi dici che il lavoro che abbiamo portato a compimento ci parla di un luogo per il quale siamo stati scelti, e nel quale i nostri sguardi occupano un rifugio dell’assenza e del dolore, uno spazio per la speranza e l’infanzia recuperata, per il silenzio. Gli esili, le vite vissute, le parole e gli scritti, quelle rose ed il loro tempo, come canticchiavi sempre, sono quelle piccole cose che ci tengono alla loro mercé, che ci pedinano, ma che conserviamo in un angolo perché non muoiano di freddo?

A. A. “Senza troppe disquisizioni teoriche, le dico quello che è già scritto fin negli ultimi atomi del mondo e dell’estetica: non si può far niente se non dall’esperienza e dalla circostanza…non c’è poesia che non sia di circostanza. Sempre naturalmente che questa circostanza sia trasfigurata, che vada verso la simbolizzazione, verso un esercizio simbolico che trascenda questa circostanza”. Era il poeta Gonzalo Rojas. Mi ha impressionato la sua generosità, la sua totalità. Ci disse: “Come fate a portare avanti la loro costruzione, la loro visione e la loro espressione del mondo? Io credo vivendo fuori e dentro, non perdendone il contatto nemmeno per un secondo, anche se con lutto e disfacimento, anche se con dolore. Non perdiate mai la connessione fresca e vivace con questo. Non è facile spiegare perché abbandono il paese, il fatto è che io scelgo di vivere all’esterno, ma per vivere all’interno. Questo è l’esercizio dialettico…”. Ti rispondo con la prima poetica che ricordo e che scrissi, quando avevamo l’Atelier “Maruri”, nella libreria Croce di Roma: “La mia voce è l’espressione di capogiro che sento quando sento la mia identità che si disgrega” chiaro che questo è più di una dedica, è anche condizione e disposizione, perché nel poeta esiste sempre un certo esilio, non solo dalla realtà ma anche dalle apparenze, ed è come se un’attitudine mentale ti mostrasse tutto in un altro modo, è una condizione dello spirito, che si installa al di là della lingua stessa, che assume questa distanza, e che si cerca in altri idiomi. Le parole sembrano scosse da tensioni particellari, da impulsi che sembrano essere in cerca di qualcosa che appaia definitivo, totalizzante, in questo mi sento molto riflesso in Juan Downey, artista capace di sublimare piuttosto un idioma etico, che ci lancia alla ricerca di voler sapere di più, di avere una maggiore conoscenza di quell’abbandono cosmico.

P. R. Un luogo chiamato Scompiglio, frondoso e umido, più di cento verdi e vari cieli in un singolo istante di tempo, munifico e generoso; un altro chiamato Andalucía, accecante e torrido fino all’asfissia, amato e mitico e mistico; un altro chiamato ed evocato, Cile, immenso e lontano, pozzo lirico rivelato ed enorme; ed una sola lingua, uno stesso idioma, un medesimo pensiero attraverso un cammino, un tragitto di migliaia di chilometri. Una parola. È della sua distanza che voglio parlare. Perché la distanza si fa luce e corpo. Il peso vitale della sua densità, l’affanno della terra asportata per introdurre degli esseri viventi, nuove immagini, nuovi e liberati fantasmi; perché discendendo siamo stati consegnati al recondito, al profondo, all’assenza di pioggia e di calce, a ricordi e sguardi e vivenze ancorate ad un luogo e ad una terra millenaria e umida, terribilmente umida, e ciò gravita sempre sopra di me. Le porte, i tavoli disabitati, come scranni e ricettacoli sradicati, si decontestualizzano e si uniscono nuovamente, saranno letti, talami, sepolcri verticali, un enorme giaciglio di feretri, però continueranno ad essere porte, tavoli e scrivanie e libri e fogli, cuciti ancora alle nostre vite, sebbene non aprano al futuro. Fogli e frammenti di libri, di testi, di scritti e di disegni, di giornali sporchi sparsi sul suolo, di cartelle dove abbiamo conservato dei messaggi perché non fossero contaminati dalla peste. Ma le cartelle e gli archivi sono chiusi per sempre. Sono cuciti ed incollati. Dobbiamo immaginare, percepire, interrogare, credere. Antonio, cosa significano per te le tue credenze come poeta, come curatore, per la tua drammaturgia, cos’hanno significato nella tua vita? Perché se c’è qualcosa che mi ha unito a te è la poesia e la sua immensità, ed abbiamo parlato molto anche di teatro, della sua necessità come respiro, degli oggetti che lo formano, della sua contemporaneità.

A. A. C’è una sorta di necessità di comporre un rompicapo, la necessità di sopravvivenza che mi ha sempre accompagnato. La post adolescenza coincise con il mio arrivo in Italia, mi faceva cercare, setacciare, sminuzzare, trovare ed appropiarmi di qualsiasi indizio di identità della quale mi credevo parte, volevo, desideravo crescere. Iniziai volendo conoscere la nostra storia, ma non mi bastò, partecipai ad un laboratorio con vari miei compatrioti in esilio, ma nemmeno questo mi bastò, mi gettai a capofitto nel voler incontrare i miei coetanei dispersi nel mondo. Faccio di tutto per produrre incontri importantissimi. Questi incontri per me furono molto significativi perché conobbi Roberto Matta, Wilfredo Lam, Rafael Alberti. In quel mentre, scrivevo poesie e credevo di essere Arthur Rembaud. Eravamo figli di una diaspora interiore in termini di tempo e spazio, come in una sorta di preambolo. Penso che l’artista sia soprattutto chi cattura, chi si impossessa di quello che sta al di fuori, per plasmarlo con il proprio segno. Ed io possedevo questa vocazione. Poco dopo me ne andai in Spagna e non chiedermi come riuscimmo a riunire intorno alla nostra proposta degli esuli affamati di vedersi, di ri/conoscersi, coincidemmo con i poeti della mia generazione, Mauricio Electorat, Cristóbal Santa Cruz, Roberto Bolaño, Bruno Montané…come ben scrive Neruda, nella storia intellettuale non c’è mai stata essenza tanto fertile per i poeti quanto la guerra spagnola. Il sangue spagnolo esercitò un magnetismo che fece fremere la poesia di una grande epoca e questa è stata la nostra eredità, il nostro inizio e la nostra continuità. Mi viene in mente un verso e te lo chiedo, “inizi a vivere tra una Spagna che muore ed un’altra Spagna che apre gli occhi, una delle due dovrà gelarti il cuore”.

P. R. Quel verso, caro amico, ha accompagnato come un’ombra nel tempo il nostro popolo, è sempre stato oggetto di dibattito e tema filosofico fino ad oggi. Però del maestro (con l’immensità che porta in sé questa parola) Machado ho sempre preferito, e l’ho introdotto come guida nella mia ricerca umana, quello che disse la madre ad Antonio, anziana e sul finire della sua esistenza, dopo giorni a camminare tra freddo e sete e bombardamenti, verso l’esilio provocato dalla Guerra Civile, dal quale non sarebbero mai più tornati: siamo già arrivati a Sevilla? Perché lì la vita li aspettava, l’infanzia li aspettava. Perché il tempo coincideva lì, in quel patio. C’è sempre un patio. Il nascere li aspettava. Penso che ci aspettino sempre, gli oggetti lo confermano. PERCHÉ CI STANNO ASPETTANDO. Perché uno dei più bei versi cantati ci dice che niente è più amato di ciò che non si ha mai avuto, niente è più amato di ciò che si è perso. Porte e sedie, e lampade di fil di ferro umile e arrugginito, annodate anch’esse, incagliate ed affondate, sanno che ci incamminiamo verso luoghi nuovi e ci stanno aspettando. Corde nere e terrose, chiavi antiche, piatti, forbici e calce, specchi, orologi e scarpe. Scelgo questa serie di corpi perché posseggono una dualità che mi affascina, uno sdoppiamento appassionante, un binomio vitale e necessario che porto aggrappato alla mia pelle: chiavi che permettono di aprire porte, stanze oscure e umide, muri, finestre, scrigni dove custodiamo diari e memorie antiche, ma chiudono anche libertà, chiudono prigioni e presenti; forbici che tagliano cordoni ombelicali, che danno forma ai vestiti che ci coprono, che aprono studi di poeti, ma allo stesso tempo chiudono delle vite, spengono futuri e mozzano arti; orologi che segnarono notizie antiche in giorni e minuti come quelli di oggi, che segnalano ore alle quali ci andiamo irrimediabilmente avvicinando, ore e cinturini logori che ci chiamano come canto di sirene, lancette che coincidono e ci legano a novembre; specchi e cristalli che custodiscono la memoria e l’identità frammentata; scarpe che ci portano al domani, che ci trasportano a Itaca, che servirono ai nostri padri, ma scarpe che da sole ci sussurrano odore di morte, e che nude prendono forma di bara.

A. A. Le cose si espongono, più che mostrarsi. L’aggressione visuale che scaturisce da questo è il caos che non si nega più di descrivere, ma che pretende semplicemente di significare, scompaginando così l’ordine che possiedono un tratto, un segno, un ricordo. Nella Tenuta dello Scompiglio, questi Stati Indefiniti di Esistenza vengono evocati nell’incoscio immenso e potente, sembrano come un’invito ad esplorare la profondità dell’anima, o per dirlo junghianamente, per liberare i fantasmi e disfare i nodi. Di fronte allo spettatore il foglio, il libro, l’oggetto, li vedo letteralmente come uno spazio nello spazio, come un ritaglio di spazialità che riesce a cambiare lo spazio reale. Al di là dei significanti visuali, essi ci portano a concepire la contrapposizione che rappresentano quelle remote memorie, come se fossero una parafrasi, un’accumulazione. Una sorta di tessuto o di un carosello attraverso le diverse trame che esso trasporta. Una solvente dicotomia. Un gioco visualmente complesso dove il mentale si coniuga con il fisico ed è così in grado di configurare nuovi spazi dell’immagine. Caos quindi, questa personificazione del vuoto primordiale. Perché il caos di fronte al mistero dell’esistenza non è altro che una mera denominazione simbolica.

 

 

Todos los paisajes son convergentes y divergentes en el desierto de Atacama

Raúl Zurita

 

  1. R. Este verso, querido amigo, traído por ti doblemente, ofrece un sentido máximo a los Estados Indefinidos para una Existencia por dos razones. La primera me fue entregada cuando entré por primera vez en aquel espacio desnudo y ya en última construcción, cuando supe en mi cuerpo que todas las líneas se aunaban en un punto, aun siendo consciente que me encontraba y respiraba en un espacio subterráneo. Un viaje, un encuentro, una espera, el idioma, la tierra, sí, la tierra, porque la sala expositiva de La Tenuta Dello Scompiglio ha sido creada horadando la tierra, porque me sentí observado, convertido en guerrero de barro, mientras nos miraban; porque lo que allí existe es aire, el peso ausente de la tierra; la tierra, porque hay gravedad como lugar donde anidan y se transmiten las ideas. Porque hay una línea arriba desde donde se oyen voces. Demasiadas voces. La segunda razón me la ofreciste como un regalo, al enviarme una serie de poemas y reflexiones de este artista que desconocía, pero que sin duda había creado un meridiano más de conexión entre mi obra, nuestras vidas y tres países. Porque todo en Estados Indefinidos es pendular. Todo es oscilante. Y en nuestras dos semanas de convivencia, acudes a Turín a abrazarlo y presentar a una serie de escritores chilenos en la Feria del Libro.

 

  1. A. Ineludible no poder ensamblar diversas circunstancias que unen el hecho de haber confluido en el mismo lugar, ineludible para ti no pensar en lo que ha ido dejando su huella en ese y en este lugar, ineludible no recurrir a la poesía entonces, caminante no hay camino, ineludible para mí no pensar en el momento en que me voy de Chile, el mirarme alrededor sabiendo que ya no se podía volver atrás, como casi queriendo retener la imagen de todo lo que me circundaba. Subiendo y bajando escaleras, observando todas las habitaciones, se me quedó  impregnado cada ángulo, cada puerta, todas las ventanas, los tajos de luz que entraban y salían, las viejas lámparas colgadas de los techos, las infinitas telas de araña, los vidrios rotos de los amplios ventanales,  las canillas enmohecidas por la humedad, los muebles antiguos y polvorientos… En el tiempo he intentado traducir esos años, ese olor, el paso de tanta gente, cuántos amores, cuántos los adioses, cuántas las muertes, cuántas las vidas, cuántas las miradas que se encontraron, que se fueron, miradas que vieron y no vieron, cuántas las palabras, cuántos pensamientos, y cuántas cosas dichas, cuántas sigiladas, cuántas gritadas, cuántas palabras calladas, cuántas plantas secas, cuántas flores en putrefacción. Las gotas solitarias que  caen en el lavatorio y que seguirán cayendo por tanto tiempo. Mientras tanto la ciudad parecía un enorme parque de juegos, y los grandes palacios las partes de un grandísimo ajedrez. Pareciera como si nunca hubiese  pasado nunca nada, todo transcurría, las jornadas, las horas… Habíamos vagabundeado cada cual por su cuenta. Luego llegaba el toque de queda (la gente de esta ciudad se entre mira, pero no se mira). Eran los inicios de la primavera y me obligaban a abandonar la casa que había crecido conmigo, que se había deshecho, conmigo. Porque sucede muchas veces que los lugares se vuelven hostiles, los viejos muros insostenibles y pesados, las ventanas se hacen demasiado pequeñas….detrás las puertas cerradas, las mismas que me encuentro al encontrarte. Es como si hablásemos una misma lengua y aunque es así, ahora me refería a una misma lengua visual. Pero como escribe Pablo Neruda en sus memorias “Muchos de mis recuerdos se han desdibujado al evocarlos, han devenido en polvo como un cristal irremediablemente herido”.

¿Desde dónde comienzas a hablar tú de este vacío existencial?

 

P.R. Dos circunstancias trágicas, como fueron la desaparición de mi abuela materna y mi padre, a quienes estaba muy unido, y la lectura entonces de unos libros marcaron profundamente un despertar en mi visión de la vida. Ambos sufrieron enfermedades largas, y en su cuidado, Ensayo de la ceguera y Cien años de soledad evolucionaban en mi vida a la vez que ellos se apagaban. El primero me llevó a una muestra (L´identità frammentata); el segundo me ha llevado a ti y a los Estados Indefinidos para una existencia. Entendí esos vacíos como un exorcismo saludable y necesario, como una poda a los árboles de un jardín para su fuerza y crecimiento posterior, como tránsitos y raíces para proyectar nuevas vidas. Ya supe que el tiempo y la memoria y sus lugares confluyen en un mismo tiempo, donde hay un eje sobre los que rotan y se retuercen, un centro donde todo coincide y se concentra. Las palabras anudadas y el aire. Las palabras y el aire. Sí. Ya era consciente que siempre pisaría las calles nuevamente.

Porque lo profundo es el aire, que decía exiliado Guillén. Porque la humedad es perenne. Al estar dentro del Espacio Expositivo, del espacio subterráneo, de su entraña, el aire gravaba como las habitaciones oscuras y húmedas de la casa de los Cidros, en el corazón ancestral de Córdoba. Quise entablar un diálogo con la vida de la casa donde tengo mi taller y habito la mayor parte de mi existencia. Es una casa antigua, pobre, donde siempre habitaron seres humildes, muy fría y muy vieja, de tipología árabe con más de 200 años, una casa enorme y cuadrada donde hay ocho viviendas pequeñas alrededor de un patio central. Donde a primeros de 1900 existió un colegio para niños muy pobres en ese patio, sin techo, solo con toldos (cubierto de telas).  He visto morir aquí a tres personas ya, pero tengo conocimiento (lo recojo en diarios) de la historia y sucesos de más de veinte familias que habitaron y respiraron aquí. Ahora solo estoy yo en este inmenso cuadrilátero de cal, ya no queda nadie, tengo alquiladas todas las habitaciones, en las cuales trabajo. De ahí que a través de los objetos, el vacío interno y pesado de lo profundo, con ello aspiro a unir y coser miradas, a introducir vivencias imaginadas, a llamar a sus antiguos moradores, a crear nuevas identidades que la habiten conmigo, en un espacio subterráneo. Es el número 18. Es el número 18 de los Cidros. PORQUE LAS CERRADURAS ESTÁN ABIERTAS. Siento la Sala Expositiva como un sarcófago blanco, atado pero a la vez circular, horizontal pero pendular. Porque el pensamiento se mueve. Y es por ahí donde lo expuesto se libera, donde los materiales se desnudan, donde las imágenes se convierten en nuevos espacios, y su contrario porque edificamos nuevas creaciones y ficciones, otros mundos; nuevos pensamientos, donde los recuerdos y las memorias se deshabitan para convertirse en nuevas ficciones, donde los espejos construyen nuevos autorretratos. En palabras tuyas, una rosa es una rosa es una rosa…Antonio, tú me dices que el trabajo que hemos llevado a cabo nos habla de un lugar para el cual hemos sido elegidos, y en el que nuestras miradas ocupan un refugio de la ausencia y del dolor, un espacio para la esperanza y la infancia recuperada, para el silencio. ¿Son los exilios, las vidas vividas, las palabras y los escritos, esas rosas y su tiempo como tatareabas siempre, aquellas pequeñas cosas que nos tienen a su merced, que nos acechan, pero que guardamos en un rincón para que no se mueran de frío?

A.A. “Sin aspavientos teóricos, les digo a ustedes lo que ya está escrito hasta en los últimos átomos del mundo y de la estética: no se puede hacer nada sino desde la experiencia y hasta desde la circunstancia… no hay poesía sino de circunstancia. Naturalmente siempre que esta circunstancia sea transfigurada, vaya hacia la simbolización, hacia un ejercicio simbólico que trascienda esa circunstancia”. Era el poeta Gonzalo Rojas. Me impresionó su generosidad, su totalidad. Nos dijo: “¿Cómo hacen ustedes para llevar adelante su construcción, su visión y su expresión del mundo? Yo creo que viviendo adentro y afuera, no perdiendo nunca contacto con aquello, ni un segundo, aunque sea con duelo y quebranto, aunque sea con dolor. No pierdan nunca la conexión fresca, vivaz con aquello. No es fácil explicar por qué abandono el país, pero el hecho es que elijo vivir en las afueras, pero para vivir en los adentros.  Ese es el ejercicio dialéctico…”.  Te respondo con  la primera poética  que escribí y que recuerdo, cuando teníamos el Taller “Maruri”, en la librería Croce de Roma:

“Mi voz es la expresión de vértigo que siento cuando siento mi identidad  que se disgrega” y claro que eso es más que una dedicación, es también condición y disposición, porque  existe  en el poeta siempre un cierto exilio, no solo de la realidad sino que también de las apariencias y es como si una actitud mental te mostrara todo de otra manera, es una condición del espíritu, que se instala más allá de la propia lengua, que asume esta distancia, y que se busca en otros idiomas. Las palabras aparecen sacudidas por tensiones particulares, por impulsos que parecen estar en busca de algo que pareciera definitivo, totalizante, en eso me siento súper reflejado en Juan Downey, artista capaz de sublimar más bien un idioma ético, que nos lanza en busca de querer saber más, de tener mayor conocimiento de ese desamparo cósmico.

P.R. Un lugar llamado Scompiglio, frondoso y húmedo, más de cien verdes y varios cielos en un instante de tiempo, dadivoso y ofreciente; otro llamado Andalucía, cegador y caluroso hasta la asfixia, amado y mítico y místico; otro nombrado y evocado, Chile, inmenso y lejano, pozo lírico enorme y revelado; y una sola lengua, un mismo idioma, un mismo pensamiento a través de un camino, de un trayecto de miles de kilómetros. Una palabra. Es de su  distancia de quien deseo hablar. Porque la distancia se hace luz y cuerpo. El peso vital de su densidad, el ahogo de la tierra extirpada para introducir seres vivos, nuevas imágenes, nuevos y liberados fantasmas; porque al descender hemos sido entregados a lo recóndito, a lo profundo, a la ausencia de la lluvia y cal, a los recuerdos y miradas y vivencias ancladas de un lugar y tierra milenaria y húmeda, terriblemente húmeda y esto gravita siempre sobre mí. Las puertas, las mesas deshabitadas, como pupitres  y receptáculos, arrancados, se descontextualizan y se unen  de nuevo, serán camas, descansos, sepulcros verticales, un enorme tálamo de féretros, pero seguirán siendo puertas, mesas y pupitres y libros y papeles,  cosidos aún a nuestras vidas, aunque no abran al futuro. Papeles y fragmentos de libros, de textos, de escritos y de dibujos, de periódicos sucios, que se desparraman por el suelo, de carpetas donde hemos guardado mensajes para que no se contagien de la peste. Pero las carpetas y archivos están cerradas eternamente. Están cosidas y encoladas. Hemos de imaginar, de percibir, de interrogar, de creer. Antonio, tus creencias como poeta, curador, por tu dramaturgia,  ¿qué significan, qué han significado en tu vida?  Ya que si hay algo que me ha unido a ti es la poesía y su inmensidad, y hemos charlado mucho de teatro también, de su necesidad como respiración, de sus objetos que lo forman, de su contemporaneidad.

 

A.A.  Hay una suerte de necesidad de componer un rompecabezas, la necesidad de supervivencia que me acompañó siempre. La post adolescencia coincidió con  mi llegada a Italia, me hacía buscar, rastrear, desmenuzar, encontrar y apropiarme de cualquier indicio de identidad de la que yo me creía parte, quería, necesitaba  crecer. Partí por querer entender nuestra historia, pero no me bastó,  participé en un taller con varios de mis compatriotas en exilio, pero ni siquiera esto me bastó, me volqué a querer encontrar a mis coetáneos dispersos por el mundo. Hago de todo por  producir encuentros importantísimos.  Estos encuentros para mí fueron muy significativos pues  conocí a Roberto Matta, a Wilfredo Lam, a Rafael Alberti. En ese entonces, yo escribía poesía y creía  ser Arthur Rembaud. Éramos hijos de una diáspora interior en términos de tiempo y espacio como una suerte de preámbulo. Pienso que el artista es sobre todo quien captura, quien se adueña de lo que esta afuera, para plasmarlo con su propio signo. Y yo  poseía esta vocación.  Poco después me fui  a España y no me preguntes como logramos congregar en torno a nuestra proposición a un exilio hambriento de verse, de re/conocerse, coincidimos con los poetas de mi generación Mauricio Electorat, Cristóbal Santa Cruz, Roberto Bolaño, Bruno Montané… Como bien escribe Neruda, no ha habido en la historia intelectual una esencia tan fértil para los poetas como la guerra española. La sangre española ejerció un magnetismo que hizo temblar la poesía de una gran época y esa ha sido nuestra herencia, nuestro inicio y nuestra continuidad. Me acuerdo de un verso y te lo pregunto, “a vivir empiezas entre una España que muere y otra España que bosteza, una de las dos ha de helarte el corazón”.

P.R. Ese verso, querido amigo, nos ha acompañado como una sombra a nuestro pueblo, a través de los tiempos, y es siempre objeto de debate y tema filosófico, aún hoy día. Pero del maestro (con la inmensidad que conlleva esta palabra) Machado siempre he preferido, y lo he introducido como guía en mi concepción de mi búsqueda humana aquél que le dice su madre a Antonio, anciana y en las puertas de la muerte tras días caminando entre bombardeos y frío y sed hacia el exilio provocado por la Guerra Civil, del que ya nunca volverán: ¿Hemos llegado ya a Sevilla?  Porque la vida les esperaba allí, la infancia les aguardaba. Porque el tiempo allí coincidía, en aquel patio. Siempre hay un patio. El nacer les esperaba. Pienso que siempre nos esperan, los objetos lo confirman. PORQUE NOS ESTÁN ESPERANDO. Porque uno de los versos cantados más hermosos nos dice que no hay nada más amado que lo que nunca tuve, nada más amado que lo perdí. Puertas y sillas, y lámparas de alambres humildes y oxidadas, que están anudadas también, que están varadas y ahogadas, sabedoras que  nos encaminamos hacia nuevos lugares y que nos están esperando. Cuerdas negras y terrosas, llaves antiguas, platos, tijeras y cal, espejos, relojes y zapatos. Elijo esta serie de cuerpos porque poseen una dualidad que me fascina, un desdoblamiento apasionante, un binomio vital y necesario que llevo asido en mi piel: llaves que permiten abrir puertas, habitaciones oscuras y húmedas, muros, ventanas, cofres donde guardamos diarios y memorias antiguas, pero que también cierran libertades, cierran jaulas y presentes; tijeras que cortan cordones umbilicales, que dan forma a los vestidos que nos cubren, que abren estudios de poetas, pero asimismo también cierran vidas, apagan futuros y cercenan miembros; relojes que marcaron noticias antiguas en días y minutos como el de hoy, que señalan horas a la que irremediablemente nos vanos acercando, horas y correas desgastadas que nos nombran como llantos de sirenas, agujas horarias que coinciden y nos atan en noviembre; espejos y cristales que guardan la memoria y la identidad fragmentada; zapatos que nos llevan a mañana, que nos transportan a Ítaca, que sirvieron a nuestros padres, pero zapatos que individuales nos susurran que huele a muerte, y que desnudos toman forma de ataúd.

 

 

A.A. Las cosas se exponen, más que mostrarse. La agresión visual que sale de esto es el caos que ya no se niega a describir, sino que pretende simplemente significar, descompaginando así el orden que tiene un trazo, un signo, un recuerdo. En la Tenuta dello Scompiglio estos Estados indefinidos de Existencia vienen evocados en el inconsciente inmenso y potente, aparecen como si fueran una invitación a explorar la profundidad del alma, para decirla Jungianamente, para liberar los fantasmas y deshacer los nudos. Delante del espectador la hoja, el libro, el objeto, lo veo literalmente como un espacio en el espacio, como un recorte de espacialidad que logra cambiar el espacio real. Más allá de los significantes visuales, nos llevan a realizar la contraposición que esas remotas memorias representan, como si fueran una paráfrasis, una acumulación. Una suerte de tejido o de un carrusel a través de las distintas tramas que eso conlleva. Una solvente dicotomía. Un juego complejo visualmente donde lo mental se conjuga con lo físico y es capaz así de configurar nuevos espacios de la imagen. Caos entonces, esa personificación del vacío primordial. Porque el caos  frente al misterio de la existencia no es otra cosa que una mera denominación simbólica.